Mino Maccari

Mino Maccari

rabendeviaregia in arte & cultura
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Lo chiamavano il Nano di Strapaese. Oppure il Mino Vagante. Oppure ancora il Tarpone. Ora, bisogna ricordare che in Toscana i “tarponi” sono dei topacci neri, grossi, aggressivi e con gli occhi feroci: ebbene, lui, Mino Maccari, come uomo, grosso non era, ma piccino, visto che superava di poco il metro e mezzo, ma come tarpone faceva la sua figura. Nero, poi, lo era perché fascista della prima ora e squadrista, e perché aveva due occhietti scuri che ti si puntavano addosso e sembrava volessero bucarti. Un tipo aggressivo, dunque, e che ci teneva ad esserlo: tanto è vero che sulla sua lapide avrebbe voluto fosse scritto: “Nacque, nocque”.
Nocque davvero. Perché con il suo quindicinale, “Il Selvaggio” – il primo numero uscì il 13 luglio del 1924, l’ultimo il 15 giugno 1943- ruppe le scatole ai conformisti, agli opportunisti, ai parolai, ai vanagloriosi, ai fascisti troppo tiepidi e a quelli che gettavano il cervello all’ammasso. Sempre polemico, irriverente, sferzante, a partire da quando disse “sì” ad Angiolo Bencini, squadrista e vinaio di Colle Val d’Elsa, che gli aveva proposto di collaborare con scritti e vignette a un giornale che “desse una mano a Mussolini”.
In che senso? Bè, si era nel 1924, era stato rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti e il Duce, con quella tegola piovuta sul capo, non sapeva che pesci prendere.
Bencini e Maccari- un senese di ventisei anni che aveva fatto la Guerra e la Marcia- volevano chiamare a raccolta tutti i fascisti duri, puri e senza paura. Insomma “contare” le vere camicie nere, per dare uno scossone a Benito.
Così nacque una delle più vivaci e baldanzose riviste del Ventennio. Con collaboratori degni tutti di ben figurare nell’italico Gotha letterario e artistico: Soffici, Morandi, Rosai, Bilenchi, Palazzeschi, Malaparte, Bargellini, Bacchelli, Pea, Pellizzi, Bartolini, Ungaretti, De Pisis, Brancati, Guttuso, Flaiano, Cremona, Tamburi, Cardarelli…
Ma cosa volevano i “Selvaggi”? Riuniti in “Tribù”, paese per paese, avrebbero dovuto difendere il fascismo rivoluzionario e intransigente dai “borghesi pantofolai”e dai “pompieri”, dagli “accomodanti” e dai “profittatori”. Sulle pagine della rivista svetta il fascismo becero e ribaldo, fantasioso e ardente della provincia; la sua bandiera è lo “Strapaese”- così si chiamerà il movimento di Maccari, Longanesi e Malaparte- populista, rurale, combattentista, che va all’assalto della Roma “ministeriale”, dei gerarchi dalla patacca lustra, dei cortigiani che son tornati a riempire le anticamere di Mussolini dopo il gennaio del 1925. E cioè dopo che il Duce, sbaragliato l’Aventino antifascista, si era assunto le sue “responsabilità” di fronte all’Italia e alla Storia, “battezzando”, di fatto, la Dittatura.
Ma i “Selvaggi” non si fanno addomesticare e, “curando i muscoli come lo spirito”, continuano a dire pane al pane e vino al vino, sempre più intransigenti e sempre più strafottenti.
Sulle pagine del quindicinale, Maccari distribuisce gli estri di prose, poesiole, motti, facezie, epigrammi, col suo nome e con gli pseudonimi di Fottivento, Tritamacigni, Orco Bisorco, Nerbolibero, Sugo di Bosco, Quadramascella, illustrandoli con quelle incisioni che gli varranno paragoni con Grosz, Daumier ed Ensor. Intanto, la sua selvaggia creatura strilla sempre di più e lui- che coltiva in sé tutte le contraddizioni perché è un fascista manesco, garibaldino e libertario, col mito della giovinezza fresca e intatta che rinnova la Patria, ma anche con qualche stravagante nostalgia per ordine e legge in salsa absburgica- ce la mette tutta per farla crescere sana e forte.
Ora piacendo, ora dispiacendo al Duce, “Il Selvaggio” campa così fino al ’43. Cambiando aria un bel po’ di volte: tra il ’24 e il ’30, la redazione gira infatti per la Toscana, prima a Colle, poi a Firenze, poi a Siena; dal 30 gennaio al 30 dicembre 1931 c’è una inaspettata stagione torinese perché Maccari accompagna nel capoluogo sabaudo il camerata “dandy” Malaparte che, nominato direttore della Stampa, vuole accanto a sé il Tarpone; infine, trasferito nella Roma littoria, il celodurismo barbarico pare addolcirsi al soffio del ponentino.
Pare, perché i Selvaggi alla “seconda ondata” antiborghese e rivoluzionaria, ci credono. E ammoniscono “Chi spara spera/chi non spara spira”. E ancora: “Chi punta e poi non spara/ E’ un uomo nella bara”.
Fieri della camicia nera, diffidano di quella “bruna” dei nazisti. Anche perché i Selvaggi sono maschi e maschilisti o, se preferite, omofobi, mentre nelle organizzazioni hitleriane il cameratismo diventa spesso e volentieri omofilia. E allora Maccari mette in guardia chi si reca in Germania: “A Monaco di Baviera/ mutande di lamiera”.
In compenso, la Rivoluzione non arriva. E Maccari: “Soffia il vento, bubbola il tuono/ Noi aspettiamo il momento buono”.
Aspetta, spera e, alla fine, dispera, Maccari nell’estate del ’43 è un arrabbiato disincantato. Antifascista? Diciamo piuttosto che, al pari dell’amico Flaiano, si sta convincendo che ora esistono due tipi di fascisti: i fascisti e gli antifascisti.
Selvaggio per sempre, il Mino vagante.

 

di   MARIO BERNARDI GUARDI

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